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sabato 29 ottobre 2011

La Dispersione

La “Dispersione”.
Un metodo filosoficamente faticoso per buttare via la propria vita.
di Claudio Lanzi - 16/04/2010
Fonte: simmetria ( www.simmetria.org)
  La dispersione è una delle più intense malattie spirituali di questo secolo, delle più… epidemiche, forse perché favorita da una proliferazione virale di proposte “psico-accattivanti” e di “facility” terapeutiche. Non ci sono vaccini contro tale malattia. Ci sono solo cure e terapie complesse, ostiche, a volte spiacevoli, di cui parlano gli antichi e ormai bistrattati filosofi.Cosa intendiamo per dispersione?
Semiologicamente il termine è composto di due parti, il separativo dis e il verbo spargere. Spargere a sua volta si attesta sulla radice spher nel senso arcaico di “seminare”.D
isperdere è quindi un “seminare male”.  Ma ciò che viene dis-perso vuol dire che “non si trova più nel posto dove ci saremmo aspettati che fosse”.
I dispersi ci sono nelle guerre, nei terremoti, insomma in quelle situazioni in cui il termine “morti” è troppo forte e si preferisce evitarlo, ma la probabilità della fine è assai elevata.
Succede anche nella matematica o nella statistica quando la dispersione dei dati rende indefinibile o non trattabile il campo di misura.
Notoriamente tale termine, nel tantrismo shivaita, come nel taoismo, come in altre filosofie d’oriente, è riferito allo scorretto uso del seme maschile e, nella cabala come nell’ermetismo occidentali indica qualcosa di assai simile.
E’ evidente che da una cattiva semina dipende un cattivo raccolto o, addirittura, nessun raccolto.
Eppure, in alveo cristiano, siamo spesso devastati sia dai cattivi seminatori come dai cattivi raccoglitori.
E sui cattivi raccolti e meglio lasciar perdere (v. ad esempio in Matteo 13,24-30) .
Il Vecchio e il Nuovo Testamento abbondano nel criticare le infinite modalità di dispersione che conducono alla perdita di energia, alla inconcludenza e, alla fine, al caos.
Si può disperdere ciò che si ha come “talento” personale e naturale, dis-sipando le proprie qualità o le proprie energie (v. ad esempio in Matteo 25,13-30).
Si può disperdere coscientemente ciò che ci è stato donato generosamente, facendone cattivo uso, in quanto non si è consapevoli del suo valore.
Si può disperdere “se stessi”, perché neurologicamente e psichicamente stressati, frammentandosi in modo da
sconnettere la propria unitarietà.
Ci si può disperdere in un eccesso di attività eterogenee che impediscono la fissità.
Ma una delle dispersioni peggiori è quella delle parole, probabilmente incluse quelli presenti in queste pagine (v.Sal.140).
La dispersione ha una molteplicità di cause psichiche: dalla instabilità, all’ansia, alla smania di acquisizione e di possesso, alla precipitazione nel fare, senza comprendere cosa si sta realmente facendo, alla vanagloria, che spinge a esibire ciò che si ha e perfino ciò che non si ha, all’incapacità nel dosare le proprie e le altrui risorse, al bisogno di convincere, opponendo una presunzione di giustizia (la nostra) ad una supposizione di ignoranza (quella altrui, ovviamente).
Tutte queste sindromi psichiche sono efficacemente riducibili, secondo Prudenzio (Psicomachia) in una prevalenza del settenario vizioso su quello virtuoso.
Se consideriamo che l’intemperanza assai più dell’accidia (tanto temuta dagli asceti, soprattutto in ambito esicasta) determina oggi le varie forme di dispersione, avremo quanto meno trovato un possibile agente patogeno della malattia su cui stiamo indagando.
La dispersione allontana ovviamente dalla consapevolezza di sé, moltiplica inutilmente gli sforzi ma dona, al “malato”, l’illusione di esercitare una grande attività, di svolgere un gran lavoro e rischia di ubriacare e confondere colui che “si” disperde”, sia attraverso l’autoreferenza che viene generata da questa polluzione nell’agire, che attraverso il plauso più o meno interessato degli occasionali compagni di viaggio.
Questo fenomeno concerne perciò sia l’immenso popolo dei discenti che quello dei docenti, a qualsiasi titolo si vogliano usare tali nomi (è applicabile quindi al popolo, ai politici, ai maestri, agli allievi, ai manager, agli esecutori, ecc.).
La dispersione può ottenere perciò facili (anche se transitori) approvazioni esteriori, come brevi gratificazioni interiori.
E’ un facile e potente generatore di “stress” o di stanchezza.
Però, nulla più della ipercineticità rende il nostro fare “visibile”, il nostro interventismo apprezzabile, il nostro ansioso rincorrere un risultato equivalenti ad una dimostrazione di operatività. Non importa quanto l’azione sia sterile o caparbia, importa il moto.
Forse per questo l’ascetismo ortodosso russo insiste tanto sulla necessità di fermarsi.
E’ evidente che viviamo in un mondo denso di stimoli al correre, al prendere (che sia un fare cerebrale o fisico non ha importanza). E’ altresì evidente che il nostro malessere esistenziale, è una spinta implacabile verso l’accondiscendenza nei confronti di “dispersive” proposte che portino verso un alleviamento transitorio del disagio della nostra ansia da dispersione (più che da prestazione).
L’attenzione che noi riserviamo a questa polluzione caotica di eventi che, in parte ci inseguono e in parte siamo noi stessi ad inseguire, è una caratteristica del nostro malessere e dello sviluppo di una bulimia intellettuale o emotiva, che non riuscendo a fermarsi su nulla, tende ad ingurgitare tutto sperando di saziarsi con la quantità anziché con la qualità.
Ma è anche evidente che questo girovagare, lungi dall’autentico cammino del “cavaliere errante”, lungi da
 perseguimento di una fissità iniziatica, conduce verso la dispersione indiscriminata dell’energia, verso l’annichilimento della coscienza, frastornata dall’ego che non riuscendo mai a “star bene” con se stesso cerca tutti i modi per “star meglio”… ingurgitando qualcosa d’altro.
Sulle origini del disagio, sulla necessità e reale importanza di una insoddisfazione, che stimoli il procedere verso un obiettivo quantomeno confuso, abbiamo scritto due libretti.
Non esiste, infatti, una indagine, una ricerca, che non parta da una percezione soggettiva d’incompletezza, da una fame verso un tutto che pacifichi il corpo e la mente.
Tutta la filosofia esamina, secondo varie tesi, lo sviluppo di tale disagio e propone sia soluzioni disfattiste che costruttive, mentre la teologia ne offre a volte di preconfezionate, accedendo alla fede.
Ma l’uscita dal gorgo della dispersione, della ricerca affannosa e infruttuosa, del girovagare ansioso, è possibile solo attraverso l’esperienza sulla propria pelle.
Non si può essere felici perché qualcuno ce ne ha data la ricetta, né essere illuminati perché lo abbiamo letto in un libro.
E’ una soluzione che va trovata con le proprie forze, con le proprie energie, una volta che si sia consapevoli del proprio “disperdersi”.
“Maestro”, “via”, “percorso”, “pratica” sono solo nomi, parole vuote fintanto che non si sia compresa la necessità di “chiudere il rubinetto del girovagare “.
Anche il fermarsi è un fare, è comunque una scelta. Ma è un “fare”, rischioso e consapevole, virtuoso e attento, difficile.
E’ un “fare esperienza” che però non sia un disperdere energie.
E qui casca l’asino.
Infatti il mondo è pieno di persone che riescono a fare di tutto e di più, in modo frettoloso e raffazzonato,… pur di non fare qualcosa come si deve
E più le proposte di attività promettono “risultati” in tempi brevi, più sono perseguite.
C’è chi va a fare yoga, e subito dopo un po’ di Tai-chi, poi va in palestra, poi va in analisi, poi studia Borges, poi fa un corso di meditazione “rapida”, poi va in piscina e infine si propina un po’ di medicina alternativa, che in tale contesto, non ci sta mai male.
Ora, se noi mettiamo in fila tutte queste attività, anche se ognuna viene teoricamente svolta per inseguire un generico “star meglio”, è facile rendersi conto che ci vuole una energia notevole a perseguirle tutte, e a reggere i continui cambi di “assetto” e di attenzione, dovuti ad una valanga che coinvolge la psiche, il fisico e un po’ (se va male) anche lo spirito.
Una caratteristica di questo mondo amante del sincretismo ormai perfino nello spirito, è che ognuna di tali attività sembra perseguire lo stesso fine (la ricerca di un equilibrio, di un centro), mentre ruota, spesso e volentieri, in ambiti eterogenei, e propone soluzioni filosofiche e fisiche “precotte”, dove è facile che il cuoco-maestro che pretende di fornire “ricette”, non abbia ne la qualità, ne lo ius per farlo.
Tale affastellamento conduce perciò, come già detto, verso un’inevitabile indigestione d’informazioni, apparentemente appetitose, perché ben guarnite e ben servite.
Per informazioni non intendiamo solo quelle intellettuali (ormai, ahinoi, “scaricabili” da… wykipedia), ma anche quelle emozionali.
E ciò amplifica la confusione fra il “sentire”, il capire intellettivamente, e la consapevolezza dell’esperire.
Cioè alla dispersione, caratteristica del nostro tempo terreno, corrisponde sempre un accumulo di alimentazione intellettuale o emozionale o perfino spirituale, che affaticano il cuore e inducono nella confusione.
Come un serpente che si mangia la coda, l’affanno della conoscenza bulimico è sia prodotto che produttori di impazienza, caratteristica di un’epoca, che mira al risultato assai prima di aver appreso la tecnica per conseguirlo.
Se, ad esempio, chiedete a qualcuno, anche esperto di musica, di ascoltare una serie di fughe di Bach per più di un’ora, lo vedrete agitarsi preoccupato.
Meglio un motivo breve, semplice; a volte è meglio perfino una lagna folk ripetibile, o una nenia che giunga facilmente alla pancia. Ma una struttura musicale complessa, che richiede pazienza, abbandono, compostezza e attenzione di cuore e di mente vuol dire fermarsi, vuol dire far spazio e silenzio in questo affollato condominio telematico che è diventata la nostra esistenza.
Non sappiamo più accogliere un messaggio armonico di una certa raffinatezza, e disporci all’ascolto, cedendo le nostre difese. Ed è inutile che i pochi musicisti veri rimasti se ne preoccupino cercando di “portare i giovani” alla conoscenza della musica classica.
Tale discorso non riguarda, ovviamente, solo la musica ma l’intera percezione del mondo della manifestazione, che deve essere “rapida” e deve “piacere subito”.
La nostra necessità di “concludere”, la nostra ansietà nel voler arrivare al risultato, introduce dei tappi nelle orecchie assai prima del necessario. Psicologicamente è un infelice coktail  fra l’ansia da prestazione e l’ansia da fruizione.
E, per tale ragione, più l’esperienza è rutilante, rumorosa, emozionalmente “forte” ma semplice, più diventa oggetto di desiderio per una fruizione rapida.
Tutto deve essere condotto a “flash”, attraverso eventi che si concludano in poche decine di minuti.
Sarebbe facile confinare questo fenomeno nella difficoltà di concentrazione.
In realtà, dal punto di vista sottile, è proprio l’elemento dispersivo, e perciò ondivago, dell’animo umano, quello che non riesce a contenere l’aspettativa della “fine”, quello che brama il raggiungimento del “risultato”.
E si può anche essere bravi a concentrarsi ma assolutamente incapaci ad aspettare.
Se vogliamo dare a tale analisi una collocazione un po’ più ortodossa e spiritualmente arcaica, potremmo dire che ormai da circa un secolo, si è definitivamente rotto l’orologio delle tre Grazie. Quella che prende, quella che conserva e quella che restituisce, sono passate da una danza armoniosa ad una danza frenetica e ossessiva. Non sono diventate dionisiache (come piacerebbe a Danielou) ma sono semplicemente schizofreniche.
E mi sia concesso che non c’è niente di peggio di tre Grazie schizofreniche per gestire la dinamica dell’universo.
E facendo parte della corte di Venere ne consegue che anche la dea dell’Amore si trovi, attualmente, in una penosa situazione di stress.
Nessuna delle tre Grazie riesce più a capire bene cosa deve fare, e non c’è modo per assorbire il senso profondo delle tre fasi: del prendere (piano) del trattenere (e quindi com-prendere, piano) e del restituire (non gettare furiosamente, ma con calma).
Il famoso “consumismo”, di cui si straparla ogni giorno, è anche questo. Un disturbo schizofrenico della manifestazione dove il ciclo armonioso, anzi, grazioso, è andato a farsi benedire.
Che fare?
Anche se in tanti anni, sia all’interno di questa struttura (Simmetria) che in altre situazioni, abbiamo provato a proporre alcuni metodi per dissipare un po’ di nebbia (parlo dei metodi classici, che ci sono stati insegnati e non di invenzioni personali), nella speranza di vedere all’orizzonte qualche barlume di luce, la oggettiva situazione animica che ci circonda e di cui noi stessi siamo composti, non ci porta verso alcuna forma d’ottimismo.
E, probabilmente, è giusto che sia così, e forse anche il fatto stesso di “protestare” come ora sto facendo, aggiunge dispersione al fiume in piena che tutto sta travolgendo.
Per cui sembra stupido proporre ricette.
C’è talmente tanta gente che propone ricette che un mio grande amico, molti anni fa mi disse:
“Ma quanto manca perché il numero dei maestri superi quello degli allievi?” e, poveretto, non sapeva che, ormai, di allievi ce ne erano rimasti pochissimi. Anzi oggi c’è rimasto solo lui.
Lo sapete che faccio? Vado a cercarlo di corsa, almeno il mio ego schizofrenico potrà credere di poter insegnare qualcosa a qualcuno e soddisfare le smanie consumistiche di Efrosine di Talia e di Aglae che, ormai da tempo, hanno abbandonato la compagnia delle Muse e sono andate a vivere in un supermercato.

P.S. Ma, contrariamente a me, sono fiduciose: aspettano che a Roma, venga terminata la nuvola di Fuksas.
Andranno a chiudersi li, visto che le strutture per gli psicopatici le hanno chiuse da tempo.

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Fino alla fine

Si tratta di Anne e Sigrid, madre e figlia, insegnante di scienze e dottoressa. Il più grande ha 67 anni, il più giovane appena 40. Entrambi...